Made in Italy, un brand da pensare, produrre, tutelare e comunicare: Giulio Iacchetti

Giulio Iacchetti Designer

La parola chiave per Giulio Iacchetti è good design: c’è un pensiero italiano del prodotto e come si declina? “La mia esperienza lavorativa nasce e si incardina nelle aziende del casalingo, ma la provocazione di oggi è parlare della via italiana del progetto, parola che ha una qualità superiore al design, ultimamente è un po’ usurata”. E delinea cinque concetti che informano il modo di progettare italiano: “la precarietà come opportunità”, “cosa succede al di là della strada”, “la forza narrativa degli oggetti”, “dal cucchiaio alla città”, e infine “l’utilità dell’inutile”.

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Partiamo dal primo concetto, “la precarietà come opportunità”: “abbiamo grandi maestri – da Enzo Mari, Vico Magistretti, Ettore Sottsass, Marco Zanuso o i Fratelli Castiglioni – che ci hanno insegnato la precarietà non come un limite ma come grande opportunità. Stiamo parlando di un’Italia, colpita dalla guerra, inventarsi un nuovo modo di fare il proprio futuro, con un grande incentivo a progettare. E gli esempi parlano da sé, come la lampada Falkland di Danese Milano progettata da Bruno Munari nel 1964: significa guardare le cose con uno sguardo laterale in una precarietà di forme e di oggetti che danno una vera ricchezza.

Secondo concetto, “cosa succede al di là della strada”: in Italia si vive di sinergie, ed è l’atteggiamento meravigliosa dei nostri imprenditori. Un esempio per tutti, la seggiola Steelwood di Magis realizzata grazie alla partnership con un’altra azienda del proprio contesto geografico specializzata in una tecnologia per pressa in grado di modellare la scocca della sedia. Significa vedere cosa fanno gli altri, mixare, ‘meticciare’, e considerare materiali nati per uno scopo ma utilizzarli in maniera un po’ imprevista in un’altra situazione.

Il terzo concetto pone l’accento sulla “forza narrativa degli oggetti”, perché non è vero che abbiamo bisogno di oggetti che funzionano, ma che dialogano con noi e che raccontano una storia. Come il noto cavatappi Anna G. di Alessi (progettato da Alessandro Mendini nel 1994) che evoca la sagoma di una ballerina, o il contenitore portaghiaccio Lingotto di Fratelli Guzzini che ribadisce il valore dell’acqua come bene prezioso universale. Oggetti che sono un pretesto per raccontare una storia con lo sguardo universale del progettista che va dal piccolo al grande e guarda con la medesima attenzione qualsiasi manufatto. E per indicare questa apertura ecco il quarto concetto, “dal cucchiaio alla città”: da una piccola posata usa e getta (il cucchiaio Moscardino di Pandora Design progettato da Iachetti nel 2000) ai tombini Sfera realizzati dalla Tombini Montini su un progetto Iachetti del 2012 (la città). E per finire, “l’utilità dell’inutile”, perché avere a che fare con l’inutile è uno strumento formidabile, è un nutrimento dell’anima.

E per finire, dopo aver parlato tanto di “funzione”, ecco “l’utilità dell’inutile”, uno strumento formidabile: “non sto pensando di rovesciare il mondo, ma l’Italia è ricca di persone che hanno fatto dell’inutile la loro vocazione: musicisti, pittori, scultori e tutti quelli che si occupano di cose belle, come noi designer”. Nell’estate di qualche anno fa mi sono dedicato a un progetto totalmente inutile, avevo bisogno di fare un po’ di spazio nella mia vita e ho realizzato venti coltelli “inutili”: un esperimento in totale solitudine, una situazione solipsistica e di grande soddisfazione. E poi un giorno è arrivato un produttore di coltelli, gli sono piaciuti e li ha prodotti: l’inutilità ha generato utilità perché c’è stato questo sguardo umanistico non specializzato e aperto che ha nutrito l’anima prima di progettare.

Bottone

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