Intercettare desideri per vendere di più

Entrare nella mente del cliente cercando di capire, al di là delle necessità già messe a fuoco, quelle che sono le sue aspirazioni circa l’acquisto di beni che possano migliorare da un punto di vista funzionale ed estetico la sua quotidianità. Questa la ricetta di Mariano Diotto esperto in neuromarketing

I rivenditori di articoli per la casa hanno spesso a che fare con prodotti di livello medio-alto e alto con fasce di prezzo importanti. Accade che alcuni rivenditori non riescano a valorizzare adeguatamente il prodotto, perdendo così delle opportunità di vendita e di fidelizzazione del cliente. Cosa si può suggerire a un negoziante per valorizzare il suo punto vendita e il prodotto che espone?
Quello che si può, in primo luogo, notare è che generalmente nella vendita in negozio si usano spesso degli stereotipi, cioè dei luoghi comuni che hanno funzionato nel tempo e che in parte possono funzionare ancora oggi, per catturare l’attenzione e per descrivere i dettagli del prodotto. Questo perché è ancora molto diffusa la convinzione che il prodotto vada venduto enfatizzando i dettagli tecnici come i materiali, la qualità o l’accuratezza della lavorazione. Tutti dettagli certamente molto importanti e che vanno comunicati, però, oggi, potrebbero non bastare. Oggi è importante capire quali sono i bisogni o addirittura i desideri che hanno indotto il cliente ad entrare nel negozio. Un bravo venditore dovrebbe capire quale tipo di necessità del cliente deve soddisfare e quindi il punto di partenza non può essere il classico “che cosa ha bisogno?”. Il bisogno da soddisfare è quello che dobbiamo scoprire, al prodotto ci arriviamo poi.

Quindi la conoscenza del cliente è oggi addirittura più importante della conoscenza del prodotto?
Sono entrambe importanti. Quello che posso rilevare è che se la conoscenza del prodotto è la conditio sine qua non per tutti i negozianti al dettaglio, non così spesso lo è anche la conoscenza del cervello del cliente. Per esempio, è molto importante capire che il cervello di ogni consumatore, di ognuno di noi, divide i bisogni in due grandi aree: quelli manifesti e quelli latenti.

È una distinzione importante, possiamo chiarire meglio?
Quando un cliente entra in negozio e sa già quale prodotto acquistare perché probabilmente lo conosce già molto bene, tecnicamente diciamo che soddisfa un bisogno manifesto. Questo succede quando abbiamo una necessità e sappiamo già qual è il prodotto che ce la soddisfa. È evidente che se vogliamo catturare più clienti dobbiamo lavorare sui bisogni latenti, cioè che non danno un reale apporto alla vita di una persona perché identitari ma perché rappresentano dei valori. Per esempio: potrei voler cambiare l’arredamento della mia casa perché lo trovo soffocante e quindi vorrei qualcosa di più arioso, per sentirmi più libero.

Questo significa uscire dagli stereotipi della vendita che vorrebbero nella definizione di un prodotto l’estetica e la prestazione, molto difficilmente più “arioso”, che effettivamente identifica un bisogno. Quindi, quello che si dovrebbe fare è cercare di capire quali sono le motivazioni che spingono una persona verso l’acquisto?
Certamente. Venendo a conoscenza di questi elementi si può formulare una vendita più razionale e convincente e collegato a questo bisogna capire quale emozione spinge la persona ad acquistare un nuovo prodotto. Per esempio: se voglio cambiare un mobile della cucina perché sono stufo di vederlo è un’emozione negativa ed è facilmente risolvibile, se invece lo voglio cambiare perché in cucina voglio sentirmi più libero e voglio che sia uno spazio che comunichi la mia identità, siamo di fronte ad un’emozione positiva. Oggi il consumatore, per i prodotti di fascia medio-alta e alta, abbina l’acquisto alla propria identità.

Esiste anche la situazione che vede il potenziale cliente entrare in negozio invogliato da una vetrina particolarmente accattivante. Questo potrebbe essere un caso di bisogno latente che potrebbe trasformarsi in una vendita, se gestita su un fronte decisamente emozionale. Siamo quindi su un piano diverso rispetto a quanto abbiamo detto finora?
Diciamo che dobbiamo fare un passo successivo. Le emozioni sono strutturate in tre diverse fasi: la prima è quella dei bisogni, che abbiamo visto possono essere manifesti o latenti. Lo step successivo è il bisogno protratto nel tempo che tecnicamente si chiama attesa. Quando da bambini scrivevamo la letterina a Babbo Natale sapevamo cosa volevamo e il prodotto desiderato era esistente, ma il solo fatto di dover attendere la notte di Natale misto all’insicurezza di poterlo trovare sotto l’albero, dava al prodotto un valore emozionale straordinario. Allo stesso modo la persona che entra nel negozio solo per curiosità rappresenta un’opportunità da non perdere per il venditore. In questo caso si deve lavorare sulle attese, quindi non deve andare a identificare la motivazione attuale ma quella futura. Si tratta di seminare nella mente del consumatore un bisogno, rappresentato da un prodotto, che spesso non viene acquistato subito ma lo sedimenta dentro di sé creando quello stato di attesa di cui stiamo parlando. È probabile che dopo qualche mese il consumatore abbia dentro di sé trasformato quel bisogno in una necessità e quindi, quando ripasserà davanti al negozio, ci saranno buone possibilità che si concretizzi la volontà dell’acquisto.

Quindi, se i bisogni possono diventare attese, le attese, protratte nel tempo danno adito ad un terzo step?
Le attese protratte nel tempo diventano desideri. In questo caso entriamo nella fascia alta di prodotto dove è possibile che si verifichi la classica situazione che vede il consumatore entrare nel negozio per acquistare un prodotto che costa 1.000 euro, ma il negoziante è talmente bravo da capire la natura del bisogno e quindi proporre un prodotto di fascia superiore che magari costa 2.000 euro. Il problema è che il cliente, pur riconoscendo la bontà della proposta, non abbia intenzione oppure non possa affrontare il conseguente aumento della spesa. In questo caso il venditore può percorrere due strade: vendere il prodotto da 1.000 euro, oppure invitare il cliente ad aspettare a fare l’acquisto, a ripensarci, creando così quell’attesa protratta nel tempo che, inevitabilmente si trasformerà in desiderio.

Sta dicendo che il negoziante dovrebbe perdere la vendita da 1.000 euro scommettendo che il consumatore alla fine cederà al desiderio che gli è stato indotto?
Ogni persona quando entra in un negozio ha la forte convinzione che il venditore adotterà qualsiasi strategia per vendergli qualcosa. Se questo non accade, anzi il venditore invita a non procedere subito all’acquisto ma a ripensarci rinnovando l’appuntamento alla settimana successiva crea un forte disorientamento nel consumatore, acquisendo da un lato fiducia e dall’altro trasformando il bisogno in desiderio.

Effettivamente si viene a creare una situazione in cui aumenta fortemente la credibilità del venditore inducendo il consumatore a tornare nel negozio una volta sedimentato il desiderio. Difficilmente andrà in un negozio concorrente. Sono questi gli effetti della costruzione di una forte credibilità?
La credibilità si connette strettamente all’aspetto etico, che è un valore molto importante e oggi molto sentito. Il neuromarketing è etico per natura perché induce a vendere al cliente giusto, il prodotto giusto, al momento giusto e al prezzo giusto. Queste sono quattro variabili fondamentali. Ritorniamo per un attimo al nostro venditore che vedendo di non riuscire a chiudere l’acquisto da 2.000 euro, si accontenta e gli vende il prodotto da 1.000 euro. È molto probabile che nel consumatore, nel tempo, si insinui un senso di delusione nei confronti del prodotto acquistato e di rimpianto di non aver aspettato, di non averci pensato un po’ di più. Inevitabilmente si associa a quel prodotto un’emozione negativa che inevitabilmente si ripercuote anche sul venditore. In questi casi è molto probabile che il venditore abbia perso il cliente per sempre, il che significa non aver raggiunto l’obbiettivo primario che è quello della fidelizzazione. La vendita non deve mai essere centrata sul prodotto ma sul cliente, sul cervello del cliente e sui suoi bisogni e desideri.

Non c’è dubbio che il marketing della vendita si è evoluto moltissimo. Tradizionalmente il venditore più bravo era quello che vendeva a chiunque, qualsiasi cosa. Oggi mi pare non sia più esattamente così. Qual è il gap di preparazione dei negozianti considerando la complessità di un approccio alla vendita moderno?
Sono cambiate le tecniche di vendita. Oggi chiunque voglia fare il venditore deve studiare. Dopo di che è innegabile che esistano venditori dotati di un particolare talento che li porta ad essere in grado di vendere qualsiasi cosa a chiunque. Sono venditori istrionici che vanno molto bene su alcuni prodotti ma non su tutti. Il passaggio dal marketing tradizionale al neuromarketing sposta l’attenzione dal “come si vende un prodotto” a “come si vende un bisogno, un desiderio, una motivazione”. La diversità tra i due approcci è sostanziale. Lo vediamo per esempio in tutte le pubblicità televisive, che non raccontano più le caratteristiche del prodotto ma rappresentano un valore, un’emozione legata al prodotto. Questa tendenza è stata iniziata da “dove c’è Barilla c’è casa”, uno spot di straordinario successo che ha portato la pasta Barilla ad essere la più amata dagli italiani.

Quindi, parafrasando un altro vecchio spot di successo, “basta la parola”?
Non esattamente. Il processo delle emozioni attraversa tre passaggi, prima il cervello, poi il corpo e infine la parola, tenendo conto che non sempre la parola è esaustiva di quello che provo e che vorrei trasmettere. Per esempio: qual è la differenza tra gioia e felicità? Ciascuno di noi potrebbe mettere l’una o l’altra parola al livello più alto.

Quindi nella vendita è importante la scelta della parola?
Certamente, ma non solo. Un buon venditore deve passare al cliente emozioni attraverso una serie di informazioni che lo coinvolgono facendogli al contempo conoscere meglio il prodotto. In questo caso però è bene sapere quante informazioni il cervello è in grado di memorizzare e normalmente non è il caso di superare le sette. Sette informazioni che contengono ciascuna una parola che sarà la chiave per la memorizzazione. In questo senso, è opportuno anche sapere che a volte una parola dissonante rispetto al contesto viene normalmente memorizzata in maniera più efficace. Se io dico: sedia, tavolo, poltrona e pappagallo, non c’è dubbio che pappagallo avrà un livello di assorbimento maggiore rispetto alle altre.

A fianco della vendita fisica oggi assistiamo a un grande sviluppo dell’ecommerce. Che cosa cambia nel passaggio tra fisico e digitale?
Nell’ecommerce il neuromarketing è utilizzato moltissimo. L’utilizzo dei colori, delle descrizioni e quindi delle parole che vengono utilizzate, il posizionamento all’interno del sito e all’interno della pagina, o per meglio dire della schermata. Esistono addirittura strumenti che consentono di registrare il movimento dell’occhio, per capire su quale immagine va e su quale elemento si sofferma. In sostanza possiamo dire che il web in quanto approccio scientifico alla vendita è oggi molto più avanti del negozio, anche perché nel negozio è richiesta una competenza personale, mentre nel caso del web, normalmente, ci si affida ad agenzie che studiano quotidianamente questo genere di cose.

Restando nel campo del digitale e dello sviluppo scientifico, nel marketing del futuro quale ruolo giocherà l’intelligenza artificiale? Cosa ci dobbiamo aspettare?
In realtà la recente scoperta dell’intelligenza artificiale riguarda solo il grande pubblico, perché già da anni il marketing utilizza sofisticati software che consentono di analizzare i social network e, di una persona, capire cosa fa, quanti anni ha, quali sono le sue caratteristiche e attitudini. Questo si riesce a fare soprattutto analizzando le immagini fotografiche che, contrariamente alle parole scritte, sicuramente non dicono bugie.
Quindi vincono sempre le immagini?
Direi di si, perché la foto racconta la realtà. Le parole, tendenzialmente, o sono semanticamente correlate alle immagini; quindi, ad un’immagine positiva corrisponde un testo positivo, oppure bisogna stabilire chi delle due mente e, ovviamente, raccontando la foto la pura realtà, è molto facile che la bugia arrivi dalla parola. Pensi per esempio al meccanismo dell’ironia: se vedessi la foto di una persona che mi sta prendendo in giro, potrei commentare con un “simpatica questa persona”, rappresentando quindi un’emozione positiva, quando nella realtà è tutto il contrario.

Per concludere possiamo dire che lo studio del cervello umano e le conseguenti applicazioni nel campo del neuromarketing sono il futuro?
La faccenda è un po’ più complessa. Certamente gli studi per conoscere il cervello saranno sempre più evoluti e per fare questo occorrerà il supporto di macchine sempre più sofisticate con un invitabile incremento molto significativo dei costi. È vero che normalmente per fare ricerca o anche un semplice test occorre un numero statistico molto alto, dalle 500 persone in su, mentre con il neuromarketing con 50 persone si possono ottenere risultati molto veritieri e molto pratici. Il costo però è ancora molto alto, per questo motivo ritengo che il futuro sia del neuromarketing predittivo, cioè quello che comporta la conoscenza delle dinamiche comportamentali del cervello tramite lo studio su libri, conferenze, appunti e altri supporti che potremmo definire tradizionali.
È sulla base di queste conoscenze che avrò la possibilità di modellare la mia comunicazione in maniera efficacie.

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