Dopo la laurea in architettura e un periodo trascorso in Messico, Martina Geroni ha aperto un proprio laboratorio artigiano a Lodi dove realizza eleganti collezioni di oggetti in grès che definisce “sculture da scomporre”. Nell’intervista che segue ci spiega i cardini della sua filosofia produttiva
Iniziamo dalla sua formazione: dopo aver operato nel campo dell’architettura, ha abbracciato il mondo dell’artigianato. È riuscita a mantenere una continuità tra questi due mondi, e se sì, come?
Materiali e scale cambiano, ma la progettazione rimane e per me l’architettura è sempre stata l’armonia della forma, dei colori, dei materiali… armonia che ho voluto riproporre nel mondo della tavola.
Per un periodo ha lavorato in Messico. A livello formale e di stilemi, questo Paese ha lasciato una traccia nel suo lavoro?
Molti nei miei lavori vedono un’influenza dei Paesi scandinavi o orientali, ma è anche dal Messico che arrivano le forme pulite e semplici delle mie creazioni. Lavoravo per uno studio di architettura (Luis Aldrete) che aveva come riferimenti l’architettura vernacolare, i progetti di Alvaro Siza o le opere artistiche di Agnes Martin. Architetture dal carattere unico prive di dettagli, essenziali nella forma. Architetture che suscitano sensazioni, anche solo con un gioco d’ombra. Questo è rimasto nelle mie creazioni.
Artigianato e industrial design: mentre nell’industrial design si punta molto spesso sull’innovazione (soprattutto tecnologica), il mondo dell’artigianato, almeno apparentemente, pare ancorato ad un savoir-faire lento e antico. Le chiedo quindi: nel “fatto a mano” è possibile parlare di innovazione?
Prima di risponderle parto da una mia considerazione personale. In questa società del consumo abbiamo quasi completamente perso contatto con la materia, nulla ha più valore. L’industrial design ha accelerato tutto: prodotti accessibili nel minor tempo possibile a discapito della qualità e dell’affezione che diamo ormai alle cose. Abbiamo perso i rituali, perché “non c’è tempo”, siamo sempre di fretta e l’innovazione deve stare al passo con questo ritmo. L’artigianato, a mio parere, fa rimanere ancorati a tutto quello che si sta perdendo: quando tieni tra le mani un oggetto creato da una persona, puoi sentire una parte della sua anima e sei maggiormente predisposto ad averne cura. L’innovazione nel mondo della ceramica della tavola può essere possibile per esempio nella forma e, conseguentemente, nell’uso dell’oggetto stesso. Ho provato a farlo con la collezione “Rosa Morada”: un oggetto dalla forma semplice che può essere utilizzato come piatto piano, piatto fondo, alzata per torta o vassoio per la colazione. Il che porta ad avere meno oggetti in casa, ma che soddisfino più esigenze, poiché multifunzionali.
Che materiali utilizza?
Uso il grès che è un’argilla a pasta compatta, molto più resistente della terraglia o della terracotta, e tiene meglio il caldo e il freddo. Con il Taller delle terre, associazione che realizza progetti per l’ambiente che ho fondato a gennaio 2020 insieme al mio compagno Giacomo Losio, abbiamo sperimentano la creazione di nuovi materiali naturali utilizzabili al tornio per valorizzare gli scarti della lavorazione della pietra, nell’ottica di non utilizzare più interamente argilla vergine. Ma a livello burocratico-legislativo abbiamo incontrato ostacoli per il riutilizzo dei materiali di scarto, non sempre considerabili come sottoprodotto, e quindi non sempre utilizzabili in nuovi processi produttivi.
Il “fatto a mano” sta catturando l’attenzione di molti. A cosa si deve secondo lei questa rinascita di interesse nei confronti della pratica artigiana?
Per il motivo di cui parlavo prima: ci stiamo rendendo conto del valore, ormai perso con l’industria, di un oggetto creato da una persona e dell’unicità dello stesso. Ormai sono sempre più diffusi anche i corsi di ceramica, perché le persone hanno bisogno di ritrovare quella lentezza e quella cura in questa società sempre di corsa. Per esempio a Milano, presso il panificio ‘Le Polveri’, e a Lodi, nel nostro laboratorio, teniamo corsi di Kurinuki: un’antica tecnica giapponese utilizzata per scolpire le chawan, tazze per fare il matcha durante le cerimonie del tè. Con questa tecnica si abbandona la perfezione della forma, per valorizzare e dar spazio al gesto dello scolpire il blocco di argilla.
Il rispetto per l’ambiente è un tema centrale nella sua produzione. Come si concretizza nel suo modo di lavorare?
Per avere dei dati sulla sostenibilità e sugli impatti del nostro laboratorio bisognerebbe condurre un’analisi LCA (Life Cycle Assessment, n.d.r.) al momento non disponibile. La produzione del laboratorio artigianale è contenuta e, nel nostro piccolo, cerchiamo di ridurre gli impatti attraverso alcune scelte. Produciamo solo ciò che viene commissionato, tentando con non poca fatica, di educare il cliente a rispettare le lunghe tempistiche che l’argilla richiede (circa 3/4 settimane di produzione).
Due volte l’anno apriamo un e-shop con i pezzi andati danneggiati durante la cottura, ma non compromessi definitivamente e comunque utilizzabili. Come materiale da imballaggio e packaging scegliamo la carta riciclabile (con certificazione FSC) invece che la plastica. Lo stesso discorso, purtroppo, non può essere applicato quando ordiniamo i panetti di argilla da 10/25 kg, disponibili solo in involucri di plastica che cerchiamo di riutilizzare nelle fasi di asciugatura degli oggetti. L’argomento dei rifiuti in plastica ci sta molto a cuore perché, a livello domestico, è dal 2017 che non accumuliamo più rifiuti di plastica monouso.
Per il laboratorio abbiamo meno libertà di azione: stiamo aspettando che i fornitori scelgano packaging resistenti ed impermeabili, in grado di mantenere l’argilla umida. Alcune soluzioni in bio-plastica si degradano troppo rapidamente a contatto con l’umidità del materiale che, quando secca a contatto con l’aria, ritarda notevolmente la produzione.
L’ecosostenibilità è oggi un tema molto presente nel campo del design e dell’architettura. Ritiene che quanto si sta facendo per rispettare l’ambiente sia frutto di convinzioni reali oppure lo considera solo “greenwashing”?
Parto dal presupposto che tutto quello che produciamo ha un impatto sull’ambiente, ma, se pensiamo che solo in Italia in meno di cinque mesi abbiamo consumato le risorse che il pianeta produce in un anno, c’è molto su cui riflettere e… soprattutto, c’è molto da fare. Quest’anno infatti l’Earth Overshoot Day dell’Italia è caduto il 19 di maggio!
L’argomento è molto complesso ed il solo modo per evitare il greenwashing dovrebbe essere quello di raccogliere dati e condurre analisi LCA. Solo chi raccoglie dati reali sull’impatto ambientale di un materiale, dei propri consumi e dei processi produttivi può parlare concretamente di ecosostenibilità.
Alla tavola ha dedicato molte sue collezioni definite “sculture da scomporre”. Qual è l’idea di tavola di Martina Geroni?
Come già detto, quando ho creato la collezione “Rosa Morada”, l’idea di base era avere in casa meno oggetti, ma multifunzionali e versatili. Ho pensato alle “sculture da scomporre” scoprendo la tradizione toscana rinascimentale “dell’Impagliata”, secondo la quale si usava regalare alla puerpera, per il primo pasto dopo il parto, un set di piatti impilati tra loro a totem. Da qui ho progettato set di oggetti per la tavola da disporre, come vere e proprie sculture a totem, su librerie o madie, anziché in una credenza, da scomporre ed utilizzare quotidianamente. Ho cercato sempre di creare collezioni che potessero essere esposte e usate allo stesso tempo, come la chicchera e la macerina della collezione “Cabossa” o la brocca della collezione “Airone”. In questo caso il piedistallo della scultura (che rappresenta l’airone nero quando caccia sull’acqua nascondendosi sotto le ali) può essere usato come ciotola. O ancora “Efesto”, nato in collaborazione con Spazio Materiae per Edit Napoli, è un tavolino da caffè la cui gamba è a sua volta composta da oggetti che possono essere utilizzati in tavola come piatti e ciotole da portata.
Le sue forme per la tavola sono eleganti e preziose, decisamente in contrasto con quella tendenza tipica delle nuove generazioni che prevede un consumo di cibo informale, veloce e distratto… Cosa ne pensa?
Per risponderle mi rifaccio ad una frase di Jonathan Safran Foer nel suo celebre libro “Se niente importa”, dove tratta l’argomento del cibo che mangiamo, soprattutto legato al tema animale, che ci sta molto a cuore: “Se niente importa, non c’è niente da salvare.”
Per me è tutto connesso: l’importanza di fermarsi e dedicare il giusto tempo al consumo dei pasti, sia da soli sia in compagnia, e la consapevolezza dell’atto di mangiare e dello stesso cibo che mangiamo, prediligendo cibo biologico, fresco, senza conservanti, non processato… ridando così valore a tutto ciò che ormai abbiamo perso… la nostra speranza è proprio legata al ritorno a questi valori.
Martina Geroni
Dopo la laurea in architettura e un percorso professionale che l’ha portata ad esercitare la professione in Messico, Martina Geroni ha avvertito l’esigenza di reinterpretarsi legando la propria quotidianità alla realizzazione di qualcosa di manuale, concreto e naturale. Tornata in Italia, nel 2018 ha aperto a Lodi un laboratorio artigianale dove realizza eleganti oggetti d’uso quotidiano dalle forme pulite e semplici.
Da sempre legata all’interesse per l’ambiente, ne approfondisce il dialogo con l’Architettura, partecipando a laboratori sul riconoscimento e la ricerca delle argille naturali e sulla terra cruda come soluzione per l’auto-costruzione.
Ha avviato importanti collaborazioni con brand ed esponenti dell’interior design, tra cui Gervasoni1988, Flexform, Cassina, B&B, ecc.
Dal 2022 Molteni&C distribuisce le sue creazioni ai rivenditori internazionali.
Alcuni ristoranti, tra cui Eline di Londra, La Coldana a Lodi (una stella Michelin), Capra e cavoli a Milano e Fieno a Parma, hanno scelto gli oggetti di Martina Geroni per il loro servizio.