Il futuro è per pochi

di Sergio Coccia

Ci sono dei momenti della storia in cui non si può più limitarsi a tappare buchi rinviando eventi e trasformazioni il più in là possibile. Arriva un certo punto in cui si deve prendere atto di ciò che avviene e, magari dolorosamente ma coraggiosamente, guardare il quadro complessivo per imboccare l’unica strada possibile per cavalcare e non subire l’evoluzione del mercato. La ricerca realizzata da Confindustria e Prometeia – giunta alla sua quarta edizione – che descrive gli scenari futuri dei consumi di prodotto italiano “bello e ben fatto”, sintetizzato nel terribile acronimo Bbf – indica che nel 2018 194 milioni di persone nel mondo saranno in grado di acquistare produzioni italiane di quel genere, grazie a un reddito medio superiore a 30mila euro annui. Di questi quasi 200 milioni la maggior parte (161 milioni di consumatori) vivrà nei Paesi emergenti. Lo studio tende proprio a identificare quali saranno gli “emerging market” più vivaci e interessanti per alimentare, arredamento, abbigliamento e accessori. Scopriamo così che fra cinque anni gli acquisti di “bello e ben fatto” da quelle aree del mondo sfioreranno i 170 miliardi di euro (il 47% in più del 2012) e che circa un terzo di tale domanda giungerà da Russia, Cina ed Emirati Arabi. Abbigliamento e tessile per la casa, in particolare, nel 2013 potrebbero potenzialmente esportare per 1,6 miliardi di euro in Europa Orientale (42% l’incremento cumulato da quest’anno al 2018). Seguono i nuovi Paesi entrati in Ue (713 milioni, +26,8% la crescita cumulata 2013-2018), il Nord Africa e Medio Oriente (388 milioni, +39,6%), l’Asia (353 milioni, +46%) e l’America Latina (139 milioni, +40,9%).

C’è poco da commentare: è ovvio che la strada per le nostre imprese può essere solo quella d’intercettare la maggior parte possibile di tali consumatori. Il problema però diventa drammatico se ci giriamo un attimo e guardiamo in casa nostra: una nota di qualche tempo fa di Renato Borghi, presidente di Federazione Moda Italia sottolineava che lo scenario delle chiusure di punti di vendita nei comparti moda, abbigliamento, calzature, pelletteria, accessori, tessile per la casa e articoli sportivi ha raggiunto cifre drammatiche. A fine 2012 si sono contate 12.461 chiusure a fronte di sole 5.851 nuove aperture. Un impressionante saldo negativo. Data la situazione c’era da aspettarselo, tuttavia il contrasto fra queste informazioni così dicotomiche fa davvero paura. Eppure bisogna rendersi conto che la crisi attuale non è ciclica ma assolutamente sistemica e, per evitare paroloni anche nella dinamica dell’approccio del cittadino italiano al consumo, siamo di fronte a variazioni che non “torneranno indietro” quando il Pil ricomincerà a crescere. I negozi chiudono perché c’è mancanza di denaro da spendere ma anche perché i target di consumo usualmente referenti del punto di vendita semplicemente non lo sono più.

Facciamocene una ragione: in breve tempo la fascia media della popolazione italiana non comprerà più nei punti di vendita indipendenti, preferendo in modo assoluto grandi magazzini, grandi superfici, outlet, catene, web e quant’altro. In conseguenza tutta la nostra distribuzione si allineerà ai numeri europei scendendo dalle migliaia di unità di solo qualche tempo fa alle centinaia di un immediato futuro. Sarà giocoforza adeguarsi a un target di consumatori più esclusivi, di fascia nettamente più alta; l’attenta selezione del mix di prodotti sarà indispensabile, l’offerta dovrà essere più professionale e qualificata, l’immagine e ogni componente della struttura di vendita dovrà essere conseguentemente migliore. Insomma solo i più bravi sopravvivranno… e non saranno molti. Chi è disposto ad accettare questa sfida deve attrezzarsi da subito, agli altri l’augurio di una serena pensione.

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