Da “Il pedagogo” di Clemente Alessandrino risalente al 200 a.C. alla net-etiquette contemporanea.
L’evoluzione del galateo, a tavola ma non solo…
Il galateo, una storia che viene da lontano…
«Le buone maniere sono la consapevolezza sensibile dei sentimenti degli altri. Se hai quella consapevolezza, hai delle buone maniere, non importa quale forchetta tu stia usando.» Così si esprimeva, a proposito del significato del galateo, Emily Post, scrittrice americana nel suo famoso libro del 1922 “Etiquette”. Un punto di vista innovativo, per i tempi in cui è stato formulato, mirante a non ridurre il bon ton a un insieme di regole formali da seguire passivamente, ma considerandolo invece un utile esercizio a cui ognuno dovrebbe sottoporsi per riuscire a calarsi nei panni dell’altro evitando così di urtarne la sensibilità.
Il galateo a tavola
Certo, quella fornita da Emily Post è solo una delle tante interpretazioni del galateo, dato che esso ha origini antichissime e ha espresso regole comportamentali diverse a seconda delle epoche. La nascita del bon ton viene infatti fatta risalire intorno al 200 a.C a opera di Clemente Alessandrino, un teologo e filosofo, che nel suo “Il Pedagogo” propose le prime regole di comportamento relative allo stare a tavola, al vestirsi, al mangiare, a come utilizzare i profumi e così via. È nel periodo rinascimentale, tuttavia, che il galateo si diffuse prescrivendo una serie di regole più rigide che in passato. Se precedentemente morale virtuosa e comportamento decoroso erano infatti una prerogativa dei soli cavalieri e dell’ambiente cortigiano, con il declino di queste istituzioni si assistette a una collettivizzazione delle buone maniere, grazie soprattutto all’influenza della nobiltà. A dare una nuova spinta al bon ton fu Erasmo da Rotterdam, autore di “De Civilitate morum puerilium” e di un trattato sull’educazione dei bambini, opere rivolte a ogni classe sociale che divennero fonte d’ispirazione per altri trattati sull’etichetta.
In Italia, Giovanni Della Casa scrisse un libro, pubblicato postumo nel 1558, il cui titolo “Galateo overo de’ costumi” divenne celebre a tal punto che in italiano la parola galateo significa l’insieme delle norme riferite alla buona educazione. L’opera era dedicata al vescovo Galeazzo Florimonte, da cui il titolo “Galatheus” che corrisponde alla forma latina del nome Galeazzo. Nel XVIII secolo fu Baldassare Castiglione a dare una definizione precisa di chi praticava il galateo. Lo fece scrivendo “Il cortegiano” un lavoro che divenne un punto di riferimento essenziale per tutti coloro che ambivano ad essere considerati uomini civili. Tra le caratteristiche de “il cortegiano”, Castiglione includeva la capacità di farsi valere nella società, quella di saper interagire usando unicamente le buone maniere e la cortesia, l’adesione ad un ideale di armonia e bellezza, ai tempi considerate caratteristica fondante di un animo elevato. Tra ’800 e ’900 fu soprattutto la borghesia a dettare le regole del galateo con consigli su come mantenere un giusto contegno indice della capacità di dominare il proprio corpo, i propri affetti e le proprie emozioni. Ciò valeva in particolare per le donne, il cui comportamento e autocontrollo erano soggetti a norme più severe rispetto a quelle destinate agli uomini, che invece dedicavano particolare attenzione alle forme esteriori, alla conversazione e all’etichetta. Uno dei più celebri manuali fu “La gente per bene” della Marchesa Colombi. Pubblicato nel 1877 come omaggio d’associazione alle lettrici de “Il giornale delle donne”, venne in seguito stampato da diverse Case editrici fino al 1901.
Specificato come sin dalle sue origini il galateo abbia compreso una serie di regole comportamentali miranti a rendere il rapporto intersoggettivo il più rispettoso possibile, concentriamoci ora sul mondo della tavola, un mondo dalle norme piuttosto conservatrici e rigide, poco propenso a un qualsiasi cambiamento che sgretolerebbe quella sicurezza che invece lo statu quo ci assicura. A questo tema, la storica antropologa Margaret Visser ha dedicato un interessante volume dal titolo “Storia delle buone maniere a tavola. Le origini, l’evoluzione e il significato” (Slow Food Editore). Anche la studiosa canadese colloca il tema del bon ton a tavola in un contesto più ampio: «Il comportamento gentile – scrive infatti Visser – è una forma di rituale che compiamo per il bene degli altri e della nostra relazione con loro. Il suo scopo è compiacere e consolare il prossimo, soprattutto quando sentiamo che possa attraversare un momento difficile, riconoscendone il bisogno di conforto e considerazione, ottenendo ciò che vogliamo da lui, senza suscitare il suo risentimento. Bisogna in tutti i modi evitare l’eccitamento e l’asprezza, e favorire la scioltezza, evitando ogni attrito».
Buon appetito e Cin Cin? No grazie!
Cominciamo con lo sfatare un luogo comune: augurare all’inizio di un pasto buon appetito non rientra nelle regole del galateo.
Il perché è presto detto; come spiega l’Accademia italiana Galateo, per gli aristocratici la tavola era un’occasione per conversare, creare rapporti, mentre il cibo era solo un contorno piacevole alla conversazione. «La nobiltà -nota Visser- non arrivava mai affamata ad una tavola formale: per questo augurare di avere appetito era ed è scorretto». Quindi, l’inizio del pasto deve avvenire in silenzio e con scioltezza, seguendo l’esempio dei padroni di casa, punti di riferimento per tutta la durata del pasto. Un’altra espressione da evitare è il classico “Cin cin”, locuzione di origine orientale diffusasi nei salotti borghesi nel secolo scorso. Per brindare è sufficiente alzare i calici e fare un discreto cenno.
Attenzione al coltello
Visser nota che il coltello potrebbe diventare un’arma; questo era ciò che a volte accadeva nella Francia del XVII secolo: «Le persone finivano spesso per usare coltelli da tavola, che a quel tempo avevano punte all’estremità delle loro lame, per ferire qualcuno seduto a tavola con loro. Allora il re francese stabilì una regola: normalmente non si dovrebbe permettere che un coltello da tavola abbia una punta all’estremità della lama. Ed è per questo che oggi nelle culture europee i coltelli da tavola hanno lame con le punte arrotondate – cioè meno pericolose.» Ma dove deve essere posta sulla tavola questa posata? «Il coltello deve essere posizionato con il lato affilato della lama rivolto verso l’interno, non verso l’esterno (che guarda un vicino di tavolo). Quando il pasto è finito, il commensale posiziona il suo coltello sul piatto vuoto con la lama di nuovo rivolta verso l’interno, lontano dal vicino più prossimo». Sempre a causa della sua pericolosità è sconsigliato tenere il coltello in pugno limitandosi ad impugnarlo solo mentre si taglia il cibo nel piatto.
Non è educato inoltre, mentre si conversa, indicare qualcuno con il proprio coltello: un gesto che potrebbe essere considerato minaccioso.
Come posizionare le posate?
Su questo tema aveva le idee molto chiare Elda Lanza, la cui passione per il galateo l’aveva portata a dedicare al tema due libri: “Il tovagliolo va a sinistra” (Vallardi) e “Signori si diventa” (Mondadori). Lanza parte dal presupposto che l’ordine in tavola non debba essere riservato solo alle grandi occasioni, ma invece essere un’abitudine quotidiana, perché l’ordine esteriore ci predispone anche a un atteggiamento più sereno. La regola prescrive che un tovagliolo vada posto a sinistra con la forchetta, mentre il cucchiaio e il coltello vadano a destra. Il bicchiere va invece posizionato sulla punta del coltello e ci vorrebbe un piattino per il pane per evitare le briciole sulla tovaglia. Sarebbe meglio limitare l’uso del coltello solo alla carne, mentre per il pesce e la frittata è sufficiente la forchetta. No ai gomiti sul tavolo e alle gambe accavallate, da preferire i piedi incrociati.
La Net Etiquette
Ricordare che non è educato tenere il cellulare sulla tavola o peggio ancora utilizzarlo mentre si mangia in compagnia di altri, pare essere un’indicazione totalmente fuori dal tempo visto come, oggi, le nostre vite siano dominate da una tecnologia sempre più pervasiva. Siamo sempre connessi alla rete e ciò fa si che molto spesso attraverso i social network vogliamo raccontare tutto ciò che ci succede, in un liveblogging delle nostre esistenze. Pasti inclusi. Così appena il piatto arriva in tavola, il nostro primo pensiero non è quello di assaporarne la bontà ma piuttosto di condividere con amici ciò che stiamo facendo. Come porre un limite a questa tendenza che pare sovvertire ogni regola del bon ton? È in effetti molto difficile. Così, se proprio si deve rispondere ad una telefonata, è consigliabile alzarsi, scusandosi con i commensali e allontanarsi da loro, tenendo sempre presente che la chiamata deve essere breve. E nel caso dei post invece? La nuova net-etiquette dice di postare, ma solo se si è rapidi e disinvolti e si condivide il messaggio con chi si ha di fronte. La suoneria va tenuta spenta ed è consentita solo la vibrazione per evitare che la conversazione sia costantemente accompagnata da suoni di ogni tipo. Qualcuno ha osservato che una volta le coppie tristi le si riconosceva per i lunghi silenzi e per le cene al ristorante consumate senza proferir verbo. Oggi, invece, per avere ognuno un telefonino in una mano e la forchetta nell’altra. Come non essere d’accordo?