Tempo fa, intervistando un grande editore tessile emerse che per eccellere sul piano internazionale era indispensabile interpretare i temi culturali di ogni area del mondo adattando a loro le creazioni tessili. In poche parole si dovevano “localizzare” le collezioni interpretando il gusto e la tradizione del luogo. Cosa ne pensa?
Non sono completamente d’accordo. In parte può essere necessario interpretare il gusto del luogo, ma deve essere un’operazione di “cucina” creativa delicata e capace di non snaturare la nostra impronta interpretativa. È proprio quest’ultima che la clientela internazionale ricerca e desidera: ridurla ai minimi termini per facilitare il rapporto di lavoro col cliente può diventare controproducente proprio perché neutralizza il nostro valore principale.
Si dice che la capacità di trarre ispirazione dagli stimoli più diversi amalgamandoli in un progetto creativo sia il pregio più importante per un architetto/designer. Lei da cosa trae ispirazione per creare le sue collezioni di tessuti?
Sono molto d’accordo. È difficile identificare un argomento particolarmente stimolante anche se, è ovvio, l’abbigliamento continua a giocare un peso importante. Diciamo però che è un peso molto “tecnico”, legato ai processi di lavorazione e finissaggio, ambiti nei quali quel settore sperimenta molto più di noi. Per il resto l’idea, lo stimolo, sono il frutto dell’osservazione. Dell’osservazione di come si orienta la società o le tendenze. Questo è l’aspetto più bello e giocoso del lavoro: il fatto è che poi si deve essere capaci di mediare e adeguare questa sorta d’ispirazione ai limiti materici del nostro prodotto e, soprattutto, ai desideri e alle esigenze della clientela. Questa è la parte più difficile: più si riesce ad affinare l’idea, a comunicarla correttamente, a renderla fruibile e leggibile, più ci si è avvicinati allo scopo finale.