I caratteri di un futuro possibile

Abbiamo quindi colto l’occasione per intervistare Alberto Paccanelli, rendendolo protagonista della nostra rubrica “il personaggio” nella sua duplice veste d’imprenditore italiano di successo e di osservatore delle dinamiche europee e mondiali del comparto. Un osservatore a dir poco autorevole: a volersi soffermare sui passaggi del suo vissuto professionale si potrebbero riempire tutti gli spazi di questo servizio. Basti dire che dopo la laurea in economia all’Università di Bergamo, il debutto nel mondo del lavoro con il Tappetificio Radici come direttore della sede inglese e una decina d’anni di attività nel campo della consulenza strategica e delle acquisizioni (tra cui quattro anni di lavoro a Los Angeles, negli States), il suo percorso è stato caratterizzato da un’instancabile crescita manageriale che l’ha portato a essere, già nel 2000, amministratore delegato del Linificio e Canapificio Nazionale (Gruppo Marzotto) cioè uno dei più giovani manager d’alto livello italiani. Dal 2007 Paccanelli entra nel Gruppo Martinelli come socio e amministratore delegato, vivendo l’espansione di una delle società tessili italiane più apprezzate sul mercato internazionale. Dunque un personaggio che può incutere una qualche forma di soggezione, eppure il dialogo con lui è lineare e cristallino: chiare le sue posizioni sulla difesa della realtà industriale europea, chiari i suoi intenti in ordine allo sviluppo dell’impresa di cui è comproprietario. Ma ciò che più conforta è che di fronte a un’esperienza vastissima costruita nel confronto col “fratello maggiore” dell’abbigliamento, il nostro interlocutore non ha dubbi sul futuro del tessile d’arredamento italiano, a patto che si rispettino le caratteristiche e le peculiarità di un mondo manifatturiero che deve evolvere e prendere atto delle trasformazioni mondiali in essere.

Alberto Paccanelli, lei è stato recentemente rieletto per il secondo biennio consecutivo alla guida di Euratex. In quella istituzione si confronta quotidianamente con i grandi industriali del’abbigliamento, settore vicino ma anche distante anni luce dalla realtà del tessile d’arredamento. Secondo lei cosa può imparare il nostro comparto da questa sorta di fratello maggiore un po’ temuto e un po’ invidiato?

Rispetto a trent’anni fa il quadro mondiale è totalmente cambiato e quelle che potevano essere considerate delle assonanze – fatte le ovvie differenze dimensionali – tra i due settori oggi sono molto meno evidenti. A quei tempi chi aveva “il ferro”, cioè la manifattura, deteneva il pallino in mano, poi c’è stata la globalizzazione e tutto è cambiato. Le produzioni hanno preso il volo verso delocalizzazioni anche estreme, rapidamente il centro strategico per il comparto dell’abbigliamento si è spostato dalla “fare” al “vendere” e produzione e distribuzione si sono sempre più fuse in un unico progetto, intervenendo l’una verso l’altra e viceversa. Tutto questo ha riguardato la recente storia dell’abbigliamento. Ora si sta verificando una sorta di ritorno alle origini, o quantomeno un riavvicinamento alle produzioni in loco, motivato da un obiettivo riallineamento dei costi industriali e del lavoro. Tutto questo però ha come discrimine assoluto il riferimento a una merce dedicata al consumo finale e, oltretutto, di rapida rotazione. Teniamo presente è questo il fattore di grande differenza che rende distanti i due mondi: il destinatario finale del prodotto. Nel caso dell’abbigliamento è direttamente il consumatore, mentre per il tessuto d’arredo esiste un anello ulteriore della filiera che si frappone fra la produzione e il consumo, rendendo la prima pressoché invisibile all’utente. Questo determina una differenza sostanziale non solo nelle strategie ma anche nei tempi evolutivi dei due comparti.

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