La follia del “depricing”

di Sergio Coccia

Perdonatemi, continuo con la mia verve provocatoria. Partiamo da un presupposto. Da chi autorevolmente studia i panieri della spesa quotidiana degli italiani, giunge la notizia che sono sensibilmente calati i consumi di carne e pesce e cresciuti di molto (oltre il quaranta per cento) quelli di pasta e riso. Nulla di strano: la crisi morde pesantemente e la spesa per cibo è voce pesantissima nelle economie disastrate della maggioranza della popolazione. Altro pilastro del mio ragionamento: il flusso di nuovi italiani è costante e ormai supera ampiamente il dieci per cento della popolazione. Non sono nordici votati al minimalismo di design ma, nella maggioranza, gente che nella loro cultura ha il tessile molto presente e considerato (Europa dell’Est, Nord-Africa arabo, Africa stessa, per non parlare poi dell’Asia). Dunque da un lato un livello di capacità di spesa italico in continua compressione e dall’altro una massa di ipotetici clienti del tessile per la casa che non va assolutamente sottovalutata.

Questo pubblico è oggi preda delle vendite a basso costo – nella migliore delle ipotesi di Ikea o Leroy Merlin per intenderci – ma la loro cultura tessile, ove ci fosse maggiore disponibilità finanziaria oppure occasioni del caso, potrebbe portarli facilmente verso altri lidi d’acquisto. Dunque come fronteggiare queste due situazioni obiettive? Partendo anche dalla constatazione che i negozi di tessile d’arredamento oggi vanno pressoché deserti? In più di un settore – compreso quello tessile – si assiste sempre di più a esempi di “depricing” radicale, cioè a ricollocazioni di prezzo di intere collezioni per allargare la base di possibili acquirenti. Si tratta di una scelta coraggiosa, forse in qualche caso obbligata, ma indubbiamente razionale se si vuole rimanere agganciati a una categoria di popolo (pardon, consumatori) di un certo tipo. E piantiamola con la favola di puntare tutti alla “agognata” fascia alta; a quelli “ricchi che la crisi non la sentono”. Quindi si deve ragionare con la realtà quotidiana di una borghesia con meno soldi e meno voglia di spendere. E allora (forse) – lo chiedo a voi – e venuto il momento di fare un atto di coraggio, dichiarandolo e facendosene vanto. Abbassare i prezzi, ridurre il proprio margine di guadagno per ridare attrattività al lavoro di tappezzeria, al recupero dell’esistente, al rinnovo tessile di un mobile o di un divano. La mia barba non è ancora bianca (per fortuna!) ma qualche anno ce l’ho e mi ricordo da piccolo quello che all’angolo della strada arrivava col carretto e la carda a mano a rifare i materassi di lana. Non ho nessun rimpianto per la condizione povera di quel mestiere d’artigiano ma, certamente, aveva una dimensione di “vicinanza” per la classe più comune che in qualche modo si è persa. O vogliamo lasciare alle fredde e spesso ben poco vantaggiose per il consumatore “grandi superfici di vendita” il potere verso le classi normalmente abbienti? Non credo sia una strategia furba. Dunque fare del “depricing” rivendicandolo e facendosene lustro, come azione per rimanere vicino alla propria clientela riduce nell’immediato i guadagni, ma potrebbe rivelarsi la giusta leva per aumentare la base di interessati. Oltretutto non dimentichiamo che oggi qualsiasi azione commerciale che profumi di sconto o affare è benvista da chiunque, anche da chi i soldi li può spendere davvero. L’esibizione del lusso è passata di moda, è considerato atteggiamento da buzzurro, mentre il risparmio e l’acquisto ragionato è considerato molto intelligente e “in”. Quindi non sarebbe impossibile prevedere che, oltre a essere interessanti per borghesie meno ricche e nuovi consumatori del tessile, una buona strategia del genere portasse nel vostro laboratorio di tappezzeria anche quei “ricchi più ricchi” che rappresentano ormai una sorta di chimera.

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