L’Editoriale di Sergio Coccia

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Mirabilia distrettuale

Piccola premessa. I rapporti e le inchieste che sciorinano, quasi quotidianamente numeri, tabelle e grafici, hanno una loro utilità. Tendo però a diffidarne: sono della vecchia scuola, quella che preferisce guardare al reale piuttosto che allo scientifico. Non è un atteggiamento di ottusità, ma resto convinto che qualche intervista ben fatta dia un quadro più sincero rispetto a pagine e pagine di tabelle che possono essere artefatte praticamente come si vuole. Tutto ciò non toglie che i rapporti indicano delle tendenze – oppure le nascondono, a seconda dei bisogni di “comunicazione” – e da queste si possono trarre delle considerazioni che possono avere una certa valenza. Prendiamo quindi il rapporto di Intesa San Paolo sull’andamento dei distretti industriali italiani. A prima vista un quadro molto ben augurante. Crescono del 3%, addirittura. Nei primi nove mesi del 2014 l’export dei distretti ha raggiunto, in confronto allo stesso periodo del 2013, crescite del 3,5%, ben più della mitologica Germania che si è fermata al +2,1%. Non solo. Secondo il rapporto, nel 2015, andrà ancora meglio: +3,1% e quindi recupero pieno dei livelli di fatturato del 2008 con un biennio di anticipo rispetto al complesso del manifatturiero italiano. L’inchiesta del colosso bancario analizza i bilanci di 12mila imprese appartenenti a 144 distretti industriali e di oltre 34mila imprese non distrettuali. Da ciò emerge che le prime investono sull’estero più delle seconde – 31 su 100 contro le 22 del secondo campione – registrano più brevetti – 61 su 100 contro 42 – e marchi – 39 su 100 contro 20. Insomma, sono più forti e attive. Inoltre si assiste a tendenze opposte: nel caso distrettuale cala il numero delle micro-imprese (quindi crescono anche le dimensioni), mentre resta alto fuori dalle realtà “di rete”. Ultimi argomenti, il forte tasso di rientri d’imprese, in questa logica, che avevano ricollocato le produzioni all’estero – ma ne abbiamo già parlato qualche tempo fa – e l’innegabile migliore attrattiva nei confronti d’investitori esteri che proprio le imprese inserite in una territorialità distrettuale hanno. Esempi? Molti al Centro-Nord ma con qualche eccezione, per esempio il calzaturiero napoletano. E poi l’agroalimentare e la moda, il marmo di Carrara, le macchine per l’imballaggio a Bologna e il food machinary di Parma… E il tessile? Notizia non pervenuta. Può essere una svista dell’estensore, può essere che il fatturato complessivo del nostro comparto è troppo basso per essere preso in esame. Purtroppo temo che non sia solo così. Il problema sta nella cronica mancanza d’infrastruttura, di presenza attiva e utile dello Stato nei confronti di queste realtà. Nella nullità politica a livello di strategia produttiva di questa nazione. Non di ora, degli ultimi settant’anni almeno. Il problema, a mio parere, non è che c’è troppo Stato, ma esattamente il contrario: c’è una burocrazia strangolante e lo Stato che aiuta, organizza, indirizza e finanzia non l’impresa singola, ma il complesso – per esempio – distrettuale, è assente. Di distretti si sono tutti riempiti la bocca, sono diventati il lustro e l’accento di ogni piano industriale presentato dai governanti del momento, ma alle parole non sono mai seguiti i fatti. Risultato? I comparti con forza autonoma forse ce la fanno, quelli fragili e in difficoltà hanno meno speranze. Eppure proprio le interviste di cui prima mi dicono che qualche segnale c’è anche per noi: fare rete è stato spesso un vuoto slogan per il politico o il funzionario di turno ma, nella realtà, le aziende che ricominciano a respirare lo fanno proprio perché hanno riattivato un sistema di rete sul territorio che permette di rispondere efficacemente alle richieste del mercato, estero soprattutto. È lecito sperare che fuori dalle maleabitudini “dell’annuncite” ci possa essere una vera sensibilità verso le necessità dei distretti, in una chiave finalmente moderna?

Voi cosa ne pensate?

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