di Sergio Coccia
Per passione e per lavoro sono possessore di una stampante professionale in grande formato. Comperata 5 anni fa, pagata oltre mille euro, dopo un lustro di efficiente servizio si è inesorabilmente bloccata. La marca – che non svelerò per non fare pubblicità gratuita – è notissima, e l’assistenza dovrebbe mantenere promesse di perfezione. Cominciamo col dire che si raggiunge solo via internet, attraverso il sito: poco male, mando una mail spiegando al meglio il malfunzionamento e attendo risposta. Dopo poche ore mi giunge la risposta (sono piacevolmente colpito dalla rapidità) ma subito la soddisfazione si muta in grande perplessità. Il tecnico mi precisa che il danno non è ingente ma che la “marca” non prevede più l’assistenza per il modello in mio possesso; mi propone quindi – come unica soluzione – la sostituzione con altro prodotto identico e ricostituito, per la cifra forfettaria di 280 euro. In pratica mi si dice che anche se il mio danno è di 30 euro io sono obbligato a sborsarne 250 di più: “però lei avrà un prodotto perfettamente ricondizionato e garantito per sei mesi”, si affretta a specificare il tecnico, temendo la più ovvia e immediata protesta di qualsiasi essere senziente di fronte a tale assurdità…
Non solo: la mia stampante è considerata strumento professionale (visto il costo vorrei ben vedere!) però con l’avvento del nuovo sistema operativo dominante per i pc, la “marca” ha deciso di non aggiornare i driver (cioè i programmi interpreti che consentono a computer e stampante di capirsi); in pratica se voglio l’ultima versione del sistema operativo devo cambiare stampante, ma se voglio la stampante non posso avere il nuovo sistema operativo. Ecco, questa è la mia piccola parabola per raccontare l’essenza quotidiana di quella malattia terribile che si chiama consumismo: una follia senza senso a mio parere. Rimanendo sempre nel sottotitolo “consumismo”, mi riferisco a uno scambio di battute su un blog che ho letto recentemente: un calzolaio evocava la prossima sparizione del suo lavoro per mancanza di giovani disposti a imparare il mestiere, ma un giovane gli rispondeva che il problema non era imparare a riparare le scarpe, ma trovare i soldi per avviare l’attività, pagare le spese e reperire la clientela, visto che il mercato è invaso da scarpe cinesi da 30 euro per le quali figuriamoci se qualcuno pensa anche lontanamente di spenderne 15 per ripararle. Lungi da me qualsiasi cedimento pilatesco, ma credo che abbiano ragione entrambi: da un lato c’è una diseducazione a considerare il mestiere artigiano come onorevole, dall’altro nessun spiraglio e aiuto verso chi può essere disposto anche a intraprenderlo, per bisogno o anche per semplice scelta. E sopra a tutto, un mercato e una società che pratica – e impone – il delirio consumistico a ogni piè sospinto. In questo quadro che possibilità ci sono di sopravvivenza per un mestiere vero come quello del tappezziere? Apparentemente davvero poche. Perché rifare un divano se posso comprarmene uno nuovo con meno della metà della cifra richiesta per il rinnovo? E poco importa se la qualità del nuovo acquisto è infinitamente minore del primo. Tanto nessuno se ne accorge. Eppure dobbiamo spremerci le meningi per trovare una soluzione: non ci si può arrendere. Mi viene in mente l’ingresso in campo dei giocatori di calcio quando tengono per mano ciascuno un bambinetto. Forse è l’unica soluzione: trovare il modo, ciascun artigiano esistente, di prendere per mano un giovinetto e accompagnarlo al mestiere. Mi pioveranno critiche di ogni genere, lo so: troppi costi, nessuno disponibile, chi può permettersi oggi un “ragazzo di bottega”, etc. etc. Ma non vedo altra soluzione…