Sergio Coccia
Al momento in cui ci mettiamo davanti al computer per scrivere questo editoriale, è appena passata la notizia di sette disgraziati morti in un rogo a Prato, nel locale adibito a dormitorio di una delle tante fabbriche tessili di quell’area. Naturalmente sono tutti cinesi, e probabilmente tutti irregolari. Nell’abbigliamento siamo nella piena normalità. Drammatica, ma normalità. Il tessile per arredamento è un po’ al riparo da tali problematiche eppure, per estensione, le questioni del lavoro non regolato, del “nero”, dello sfruttamento e, al contrario, della “protezione” del lavoro artigiano, del suo valore e delle sue peculiarità, sono di quelle da far tremare i polsi.
Lo diciamo chiaramente e senza timori: non facciamo parte di quella schiera di persone convinte che i migranti “ci vengono a rubare il lavoro”, la questione della migrazione è troppo complessa e globale per essere ridotta a slogan del genere – del resto noi italiani siamo migrati e continuiamo a migrare verso ogni parte del globo – quindi è bene su tali problemi avere quel po’ di memoria storica che è fonte di saggezza e raziocinio. Pertanto nessun ragionamento di pancia: ma ciò non toglie che il problema esiste. Qualche tempo fa, sui giornali, andava di moda citare a esempio “l’idraulico polacco” come immagine evocatrice del lavoratore artigiano che si accontentava di una frazione delle parcelle del suo collega nazionale eseguendo lo stesso lavoro e, magari, con maggiore disponibilità. È il mercato, bellezza! Si potrebbe dire. Ma è solo una battuta e, in quanto tale, troppo riduttiva. Ma allora come si protegge il lavoro artigiano e il suo valore? C’è differenza fra protezione e protezionismo, non sono arzigogoli linguistici. Un progetto di protezione significa allargare le conoscenze, cercare di condividere le competenze e la cultura del settore con i giovani, far diventare di più quelli che possono amare il mestiere e quindi acquisirne la capacità di valorizzarlo. Un progetto significa “uscire” e farsi vedere, spiegare e motivare i valori e le differenze tra qualità e qualità, ma anche rendere alla portata dei più la possibilità di accedere al lavoro artigiano. Protezionismo, invece, significa “chiudersi”, difendere strenuamente una supposta posizione territoriale facendo finta che il mondo non esiste. Così si fa la fine del generale Custer, che non è esattamente passato alla storia per la sua intelligenza. Condividere le conoscenze e il valore del lavoro significherà allora neutralizzare qualsiasi paragone con l’idraulico polacco perché, in quel caso, di qualsiasi nazionalità sarà l’artigiano, sarà prima di tutto un artigiano di qualità. Se debitamente informato, se partecipe del valore della qualità, sarà poi il consumatore a rifiutare il basso costo come discrimine unico per scegliere a chi affidare il lavoro. Un sogno? Un’utopia? Forse, ma qualcosa bisogna fare, perché se non si restituisce valore al lavoro i drammi come quello di Prato si moltiplicheranno e, prima o poi, non saranno più solo disperati e sfruttati cinesi a morire tra le fiamme de “il prezzo prima di tutto”.
Voi cosa ne pensate?